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domingo, 10 de julho de 2022

L'eredità di San Benedetto

 


Alla morte di san Benedetto di Norcia rimanevano tre centri almeno di vita monastica, ordinati secondo la sua Regola, e impregnati del suo spirito: Subiaco, Montecassino, Terracina.

Del monastero di Terracina oggi non rimane più che il ricordo. Travolti, e alcuni senza lasciar traccia, dall'invasione longobarda, sugli inizi del secolo VII i dodici monasteri sublacensi, essi risorsero, in maggior conformità con la concezione del santo Patriarca, nell'unico grande cenobio di Santa Scolastica, sviluppatosi dalla cellula primitiva dedicata ai santi Cosma e Damiano, mentre la pietà dei figli non tardò a imporre l'erezione di un nuovo monastero al Sacro Speco, dove, il santuario, ricco di memorie e di insigni opere d'arte, custodisce nel suo cuore la grotta che conobbe il segreto fiorire della santità di Benedetto.

In pieno rigoglio di vita soprannaturale e di attività operosa Montecassino, fino a che nel 577 i Longobardi non vi portarono la devastazione riducendo il monastero a un informe cumulo di rovine. Sulla tomba sempre venerata del Santo, tra il 717 e 248 il 720 Petronace riedificava i chiostri distrutti, e la vita monastica tornò a riordinarsi tranquilla.

Ma nell'883 i Saraceni, invasa l'Abbazia, la saccheggiarono e demolirono in gran parte, dopo averne trucidato i monaci con a capo l'abate san Bertario. Per un secolo e mezzo circa fu ancora la desolazione e lo squallore intorno al sepolcro di san Benedetto.


Da questa disastrosa situazione doveva però sorgere, sotto il governo dell'abate Aligerno, intorno alla metà del secolo X, una nuova rigogliosa primavera di vita durante la quale Montecassino avrebbe raggiunto l'apogeo della sua grandezza. Una terza volta il monastero, che appariva ai contemporanei «il più bello della cristianità», sembrò votato alla distruzione, e tornò a divenire un ammasso di macerie. Questa volta, però, non fu per mano di uomini, ma per lo spaventoso terremoto del 9 settembre 1349; in complesso la ricostruzione degli edifici monastici fu rapida, e poté condursi a termine in pochi decenni, soprattutto per l'interesse personale ed efficacissimo del pontefice Urbano V.

L'alba del secolo XVI portò nuove devastazioni a causa della guerra tra spagnoli e francesi che appunto si decise alla fine del 1503 nella battaglia del Garigliano, e «per la veneranda casa di san Benedetto i danni della guerra, combattuta nei suoi chiostri e conchiusasi alle sue porte, sarebbero rimasti forse inguaribili, se la Provvidenza non fosse di nuovo intervenuta pronta al suo soccorso in una maniera fuor dell'usato, ma più consona ai tempi e tale da segnare una svolta nella sua ormai millenaria storia » (LECCISOTTI T., Montecassino, p. 68, Vallecchi, Firenze.).

Giorni tristi si conobbero ancora sotto il dominio francese, e poi durante tutto il secolo XIX per le vicende politiche d'Italia, ma dopo ogni raffica la vita tornava a scaturire più rigogliosa, fino a che, mentre la badia era in pieno fervore di opere sante non si abbatté su di essa, a stendervi «la desolazione estrema» l'ultima bufera che il 15 febbraio 1944 «ha distrutto e annientato quella celebre sede di studi e di pietà che quasi luce vincitrice delle tenebre, era emersa dalle onde dei secoli» (Encicl. «Fulgens radiatur» ) per la quarta volta nel corso di quattordici secoli. «Al presente, ove prima risplendevano artistici monumenti, vi sono mura pericolanti, macerie e rovine, che i rovi miseramente ricoprono.» (Encicl. «Fulgens radiatur» ). È rimasta illesa solo la tomba del santo Patriarca, ma oggi intorno ad essa la vita inestinguibile di Montecassino è tornata ad affermarsi vigorosa; sfuggendo alla violenza degli uomini, perché è spirito e attinge in Dio la sua perennità.

Non erano trascorsi ancora cinquant'anni dalla morte di san Benedetto, quando un monaco, che fu insieme uno dei Papi più grandi della Chiesa, san Gregorio Magno, ammiratore e fervido restauratore della vita monastica, abbracciando col suo sguardo illuminato tutto il valore dell'opera compiuta dal santo di Norcia, dopo aver contribuito, scrivendone la vita nel libro II dei Dialoghi a divulgarne la memoria, dette il più forte impulso alla diffusione della Regola che divenne così ben presto l'unica norma di vita nei monasteri già esistenti e nei nuovi che si venivano formando.

Abbazia di Subiaco

Qualunque sia il valore che noi vogliamo dare alla tradizione la quale lega alla memoria di san Mauro l'introduzione della Regola benedettina in Francia, non si può però dubitare che essa vi si stabilisse molto presto, benché dapprima in genere insieme a quella di san Colombano, che finì poi rapidamente col soppiantare del tutto, così che nel 630 lo stesso monastero di Lureuil, considerato come la roccaforte del monachismo celtico, adottava in pieno la Regola di san Benedetto.

Già nel 596, san Gregorio Magno aveva affidato a una colonia monastica, guidata dal monaco Agostino, l'ardua impresa di evangelizzare l'Inghilterra ancora pagana, spingendo così i figli di san Benedetto fino alle regioni più settentrionali dell'Europa.

La seconda metà del secolo VII vede i monaci benedettini nel Belgio, mentre altri confratelli più arditi, dalle coste dell'Anglia sbarcano nella Frisia per muovere di lì alla conversione del mondo germanico; impresa audace dagli ampi sviluppi, che culminerà nel 754, quando ormai il cristianesimo avrà messo salde radici nella Germania, col martirio di san Bonifacio, massacrato con i suoi compagni mentre si accingeva a conquistare alla fede la Frisia del Nord.

Nello stesso tempo che Bonifacio lavorava alla fondazione e al consolidamento della Chiesa nella Germania centrale, nelle regioni meridionali san Pirmino, fondata nel 724 l'Abbazia di Reichenau, compiva uno sforzo analogo, riuscendo a far penetrare la Regola benedettina, e con essa la vita cristiana, nella Svizzera, dove fondò il monastero di Pfafers.

Sul principio del secolo IX moriva san Ludgero, l'apostolo della Westphalia, e contemporaneamente penetrava nella Catalogna la Regola di san Benedetto, forse già da prima stabilita nelle altre parti della Spagna. Fu questa stessa prima metà del IX secolo che vide gli sforzi di sant' Anscario per la conversione della Scandinavia e della Danimarca, operata tra difficoltà d'ogni genere e sigillata col martirio del Santo.

Anche in Polonia i figli di san Benedetto introdussero con la vita monastica il cristianesimo, nella seconda metà del X secolo, mentre un altro monaco, sant'Adalberto, portando il Vangelo agli Slavi, ne ricevette il martirio. Contemporaneamente dal monastero di Einsiedeln, in Svizzera, ricevevano le prime nozioni del cristianesimo gli Ungheresi, dei quali con molta verità si è potuto dire che sono stati generati spiritualmente e intellettualmente dall'ordine benedettino.

Prima che tramontasse il secolo X fu fondato in Boemia il primo monastero benedetttino a Brewnov, e finalmente, col XII secolo, i monaci penetravano nell'Albania, portandovi, come nel secolo precedente avevano fatto nella Dalmazia, la cultura e le tradizioni latine.

«Come nelle epoche precedenti, lungo le vie consolari, avanzavano le legioni romane, nello sforzo di soggiogare al dominio dell'Alma Città tutte le genti, così ora coorti innumerevoli di monaci che non hanno "armi terrene, ma la potenza che viene da Dio", come affermava San Paolo ai Corinzi, vengono mandate dal Sommo Pontefice a propagare gloriosamente fino agli estremi confini del mondo il regno pacifico di Gesù Cristo, non con la spada, la violenza, o le stragi, ma con la croce e l'aratro, con la verità e la carità. Ed ecco che dovunque si stabilivano tali inermi coorti, formate da predicatori della religione cristiana, da operai, da, agricoltori, da maestri delle scienze divine e umane, ivi venivano solcate con l'aratro le terre inselvatichite e incolte; sorgevano le abitazioni degli operai e degli artisti, e da una vita selvaggia e rozza gli uomini venivano formati al civile consorzio, e ad abitudini più progredite, mentre brillava davanti a loro la luce della dottrina e della virtù evangelica. «Apostoli innumerevoli, brucianti di divina carità, percorsero sconosciute e turbolenti regioni d'Europa, le bagnarono col loro sudore generoso e col sangue e dopo averne pacificato le popolazioni vi introdussero la luce della santità e della verità. Perciò si può nettamente affermare che quantunque Roma, già dilatatasi per le molte vittorie, abbia esteso il suo dominio per terra e per mare, pur tuttavia" fu meno ciò che a lei sottomise il travaglio delle guerre di quel che non le soggiogò la pace cristiana". (S. LEONE MAGNO, Serm. I in natali App. Petri et Pauli).

In maniera che non solo la Britannia, la Gallia, la Batavia, la Frisia, la Danimarca, la Germania, la Pannonia e la Scandinavia, ma anche non poche nazioni slave si fanno vanto dell'apostolato di questi monaci e li stimano gloria propria e illustri padri della loro civiltà» (Encicl. «Fulgens radiatur»).

L'età di mezzo conobbe la massima diffusione del monachesimo benedettino. Orderico Vitale, nella prima metà del secolo XII assegnava alla sola osservanza di Cluny duemila monasteri, la massima parte in Francia, e a migliaia si contavano negli altri paesi d'Europa quelli di diversa osservanza, così che una fitta rete di abbazie, di priorati, di semplici «celle» mantenevano la società sotto l'influsso santificante della Regola di san Benedetto attraverso quei centri irradiatori che stendevano le loro propaggini in tutte le categorie sociali permeandone e spesso elevandone la vita a un piano superiore di valori soprannaturali.

Avvenne anche, purtroppo, a varie riprese, che lo spirito e la mentalità del mondo, fatta breccia nella clausura monastica, minacciasse di travolgere e snaturare la sua vita profonda, ma a ogni periodo di decadenza seguirono epoche di ripresa e maggior splendore di santità. La Riforma protestante dapprima, i moti rivoluzionari dei secoli XVIII e XIX poi, sembrarono colpire mortalmente l'ordine monastico.

In realtà, lo stesso secolo XIX assistette al suo rifiorire accompagnato dal diffondersi della Regola benedettina nel mondo intero, fino nella lontana Australia. Per spiegare l'influsso sociale del monachesimo benedettino, bisogna anzitutto rendersi conto dell'attività economica necessariamente connessa fin dalle origini con ogni monastero, nucleo centrale e stabile intorno al quale si sviluppava la proprietà fondiaria sotto le diverse forme comuni agli usi del tempo, e in processo continuo di arricchimento per via di acquisto o, più comunemente, di donazione.

La coltivazione di questi domini, spesso assai vasti non poteva essere compiuta in maniera diretta dai monaci che dovettero ricercare il concorso della mano d'opera estranea, sotto forma di braccianti, di servi, o di coloni. Le opere da compiere erano gigantesche: dissodamento delle foreste, bonifica dei terreni insalubri, coltivazione razionale dei campi, vasti allevamenti di bestiame. Tutto questo importava un'attrezzatura complessa, direzione intelligente e mezzi proporzionati alle esigenze di un lavoro da eseguirsi su larga scala. In epoche di totale disorganizzazione, l'Abbazia era il centro che solo aveva la possibilità di questo impianto, e per naturale conseguenza i monaci si trovarono nella necessità di divenire gli educatori economici del popolo: «i loro domini sono esemplari compiuti di buono sfruttamento agricolo e di saggia amministrazione, e se numerosi abati hanno lasciato fama di santità, più di uno ha insieme meritato fama di abile agronomo» (PIRENNE H., Histoire de Belgique, t. I, p. 146.).


Conseguenza dell'operosità monastica e del complesso di interessi che ad essa vennero ben presto a intrecciarsi, con l'urgente necessità di sbocco per la produzione eccedente i bisogni di consumo del monastero e delle sue dipendenze, e di scambi con altri generi, fu l'organizzazione del commercio, dapprima in forma rudimentale, poi con un raggio sempre maggiore così da imporre il problema di provvedere adeguate possibilità di trasporto delle merci, per via di terra, di mare, o fluviale.

Cominciarono a fiorire anche le industrie, nelle officine monastiche dove numerosi operai venivano addestrati ai vari lavori richiesti dai bisogni della comunità intorno alla quale si stringevano le famiglie di tutti questi dipendenti, spesso così numerose da formare dei veri villaggi, dai quali non di rado ebbero origine le stesse città. Le rendite, che potevano così divenire considerevoli, oltre al mantenimento del monastero stesso, venivano impiegate o nell'incremento del patrimonio monastico, o, in ben più larga misura, in opere di beneficenza di incalcolabile valore in quei tempi e nelle condizioni di vita che vi erano legate.

Opere di pubblica utilità, strade, ponti, canali, andarono moltiplicandosi nelle terre dipendenti dalle abbazie, mentre concedendo dei crediti senza interesse, col semplice deposito di un pegno, si preludeva alla geniale istituzione dei «monti di pietà», e ospedali, ospizi, larghe elemosine ai bisognosi, venivano incontro, nei modi più opportuni e multiformi a tutte le miserie alle quali nessun altro avrebbe pensato a prestar soccorso. Per secoli interi la beneficenza, sotto tutte le sue forme, può dirsi gloria benedettina. Non doveva però limitarsi a questo l'influsso sociale dei monaci, ché esso ebbe risonanze non meno profonde anche nel campo intellettuale, e si poté senza esagerare attribuire ad essi la salvezza del patrimonio culturale del mondo antico, tra le distruzioni operate dalle invasioni barbariche.

Fin dalle origini i monasteri ebbero le loro scuole, indispensabili alla formazione dei piccoli oblati che si venivano educando alla vita monastica la quale esige una non indifferente preparazione anche intellettuale; a queste scuole interne, in un intento di carità della quale forse oggi non è facile misurare la portata, non tardarono ad aggiungersi anche le scuole esterne che

raggiunsero in alcuni luoghi grande celebrità e dalle quali uscirono gli uomini più grandi del loro secolo, determinando così un irraggiamento luminoso di dottrina che doveva gettare fasci di luce in mezzo all'oscurità della barbarie.

Biblioteca dell'Abbazia di Admont - Austria

Accanto alla scuola, e strettamente connesso con essa, ogni monastero ebbe lo «scriptorium» ossia un laboratorio di copiatura e trascrizione dei codici; organo silenzioso nel quale il lavoro paziente degli amanuensi moltiplicava i libri, facilitandone la conoscenza e lo studio, e con esso l'amore della cultura classica e delle grandi opere religiose dell'antichità. Questi codici, spesso artisticamente miniati, erano ricercati con avidità e gelosamente custoditi nelle biblioteche, di importanza maggiore o minore a seconda delle diverse esigenze dei monasteri, ma sempre considerate come uno dei più preziosi tesori della comunità. San Benedetto Biscopo morente imita sant'Agostino vescovo di Ippona, e lascia come testamento ai suoi monaci due raccomandazioni solenni: la regolarità della vita e l'amore della biblioteca.

Essi pensavano come san Girolamo: «Se tu preghi parli allo Sposo, ma quando leggi è Lui che parla a te.»

I libri erano la loro luce, la loro forza. Molte biblioteche si sono compiaciute di scrivere sulla porta d'ingresso: «Claustrum sine armario quasi castrum sin e armamentario» espressione tradotta in un proverbio medievale francese: «Monastero senza libri, fortezza senz'armi» (SCHMITZ, Histoire de l'Ordre de Saint Benoit, t. II, pa. 71. Ediz. Maredsous, 1942.).  

Oggi ancora la vita benedettina ha una sua parola profonda da dire alle anime. Diversa nei suoi aspetti esteriori, offre nell'America le sue grandi abbazie operose di una multiforme e intensa attività; porta come nei secoli remoti la luce del Vangelo e i benefici della civiltà nell'Australia e nell'Africa, dove intorno ai monasteri si sono formate missioni fiorentissime; in Europa, a Solesmes, il canto gregoriano è scientificamente studiato in una scuola di risonanza mondiale; a Einsiedeln, i monaci curano magnifiche opere di carattere religioso e sociale; in Italia, nel Belgio, in Inghilterra, in Germania, in Austria, in Spagna, le grandi abbazie svolgono una operosità intensa nel campo liturgico, scientifico, educativo, per non dire del lavoro che si compie nel campo specificamente religioso con quelle forme di ministero che sono più confacenti alla vita monastica. Ed è dei nostri giorni una promettente fioritura di santità che attesta la fecondità inesausta della Regola santa che da quattordici secoli continua a indicare alle anime che sentono più viva l'urgenza del soprannaturale, la via faticosa per la quale «tornare a Colui dal quale per la pigrizia della disobbedienza ci eravamo allontanati» (Regola, prologo).

São Marcos Ji Tianxiang: Um santo pouco conhecido, viciado em ópio, mas que nunca perdeu a fé

 


Todos nós somos atormentados por vícios e defeitos dos quais, por alguma razão, parece nunca conseguirmos libertar-nos. Por causa desses pecados, continuamente magoamo-nos – e pior ainda, magoamos os nossos entes queridos, os nossos amigos, os nossos cônjuges e os nossos filhos. Muitos de nós católicos, por causa deles, voltamos repetidamente ao confessionário, frustrados por continuarmos confessando os mesmos pecados de sempre.

Isso não quer dizer que não saibamos, no fundo do coração, que essas afeições são erradas. No entanto, às vezes algo em nós não quer assumir o compromisso de mudar. E assim rezamos como o jovem Santo Agostinho: “Deus, dai-me continência e castidade, mas não agora!”

Mas esta não é a única razão para o nosso fracasso em mudar. De facto, às vezes não é por causa de qualquer apego ou falta de vontade consciente, mas apenas pela experiência incapacitante da nossa própria incapacidade. Sem a graça de Deus, somos espiritualmente coxos, e esse facto faz-se sentir dolorosamente nos nossos repetidos fracassos, que continuam a infligir dor aos nossos entes queridos e a nós mesmos. Infinitamente frustrados pelos nossos próprios fracassos, rezamos uma oração ligeiramente diferente daquela que Santo Agostinho rezou quando era jovem. Confrontados com a nossa incapacidade, aproximamo-nos do Senhor quando estamos perto do ponto de total desânimo e rezamos: “Ó Senhor, faça-me santo AGORA!”

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Podemos inspirar-nos para esta oração num santo muito menos conhecido: o mártir chinês São Marcos Ji Tianxiang, um cristão devoto e médico do final do século XIX. O que diferencia Ji de muitos outros santos é que ele morreu atolado num vício do qual nunca conseguiu libertar-se: o vício paralisante do ópio. Depois de contrair uma dolorosa doença estomacal, automedicou-se com a droga viciante e viu-se irreparavelmente dependente dela pelo resto da vida.

Enquanto os avanços na medicina moderna permitem-nos ver o vício como uma doença a ser curada ou controlada, Ji e os seus entes queridos certamente experimentaram a sua dependência como uma falha moral também.

A devoção de Ji à fé católica nunca diminuiu, apesar do seu vício ao ópio. Ele voltava fiel e frequentemente ao confessionário, trazendo o seu pecado diante de Nosso Senhor e pedia-Lhe perdão. No entanto, seu vício também nunca o deixou. Não importa quantas vezes ele se confessou, e não importa quantas vezes ele pronunciou a sua resolução de mudar de vida. Ele continuava a cair sempre no vício. Aqueles ao seu redor, incluindo a sua família, seus amigos e até mesmo o padre a quem ele confessava regularmente os seus pecados, suspeitavam que ele tinha abandonado todo o desejo de viver uma vida verdadeiramente cristã, virtuosa. De fato, o confessor chegou até a proibi-lo de receber os sacramentos até que se tivesse libertado do vício. Essa situação continuou por 30 anos – e ainda assim, em todo esse tempo, Ji permaneceu comprometido com a sua fé e com a Igreja. Ele nunca abandonou a sua esperança na graça de Deus.

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Santo Agostinho ensinou que o desejo de rezar sempre é equivalente a orar sempre de fato. Obviamente, sendo criaturas temporais, não podemos rezar literalmente com as nossas palavras a cada momento do dia. Devemos dormir, comer, caminhar, trabalhar, ocupar-nos de inúmeras atividades que acarretam interações sociais, etc. Os homens não são de facto tão proficientes em realizar multitarefas, então a injunção de São Paulo para se rezar sempre parece impraticável. No entanto, a solução simples de Agostinho para esse problema é a de afirmar que o desejo em si conta. Desenvolver uma vida de oração saudável e holística é, portanto, uma questão de cultivar esse desejo e manter a chama sempre viva.

Da mesma forma, a santidade é, em última análise, uma questão de ter um desejo sincero por Deus. O desejo sincero de ser santo é em si um sinal de que Deus já plantou as sementes da santidade no coração da pessoa. Por causa disso, o pecador que tem este desejo pode estar confiante na graça salvadora de Deus.

Isso não quer dizer, obviamente, que ele pode ser presunçoso e tomar a graça divina como certa e continuar a pecar sem qualquer resolução real para mudar de vida. Esta é a atitude que caracterizou a oração defeituosa do jovem Agostinho: “Faça-me santo, mas não agora”. É a disposição de quem diz a si mesmo: “Está tudo bem, continua a pecar. Ainda não é preciso mudar de vida!”.

No entanto, se a pessoa está consciente de que precisa de mudar de vida já, confia na graça de Deus e alimenta um desejo sincero dentro de si mesmo de ser santo, a oração “torna-me santo agora” não significa presunção, mas manifestação da virtude teologal da esperança e, portanto, contém as próprias sementes da santidade. O pecador que reza assim, sinceramente, pode assegurar-se de que “está tudo bem” – não que esteja tudo bem, por ele ser imperfeito e continuar pecando, mas porque é imperfeito e precisa mudar. Pois ele é amado por Deus e, desde que responda a esse amor com sinceridade de coração, pode ter a certeza de que Deus o mudará - embora o tempo de Deus, não seja o mesmo dele.

E foi o que aconteceu com São Marcos Ji Tianxiang, celebrado pela Igreja no dia 7 de julho.

Em 1900, surgiu na China a violenta Rebelião dos Boxers, que pretendia expulsar pela força todos os estrangeiros e colonialistas da China. Inevitavelmente, a presença do cristianismo ali passou a ser percebida pelos rebeldes como herança do colonialismo ocidental, e assim a rebelião também levou muitos cristãos ao martírio. Milhares foram massacrados, Ji e sua família entre eles. Ainda viciado em ópio, Ji mostrou uma coragem maravilhosa diante dos seus carrascos e implorou para ser morto por último para poder ficar com cada um dos membros da sua família, confortando-os enquanto eram decapitados um a um. Finalmente, ele também foi decapitado, enquanto entoava confiantemente a Ladainha à Santíssima Virgem.

A história de São Marcos Ji Tianxiang faz um contraste interessante com a de Santo Agostinho, que viveu na lama do vício durante a sua juventude – enquanto fazia a oração insincera da presunção – mas acabou sendo salvo desses vícios pela intervenção milagrosa de Deus. Ji, pelo contrário, nunca se libertou dos seus vícios, mas manteve fielmente uma sincera devoção, do fundo do coração, até ao momento do seu heroico martírio. Ji foi salvo dos seus vícios apenas no momento da sua morte - confirmando que o tempo de Deus, não era o seu e que a sua esperança não era vã.

Jonathan Culbreath 06 de julho de 2022, traduzido do inglês da revista “America”, com pequenas adaptações.

quinta-feira, 7 de abril de 2022

Quem resiste à calúnia?

 


Segundo um ditado português, a calúnia é como o carvão, quando não queima, suja a mão.

Um professor de música dos filhos do Rei Luís XV, chamado Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, escreveu em 1775 uma comédia para teatro intitulada “O Barbeiro de Sevilha”, transformada em ópera por Giovanni Paisielo em 1782 e mais tarde, em 1816, orquestrada também por Rossini. Nela, encontramos uma descrição clara e viva de como se espalha uma calúnia:

“A calúnia? Oh! O senhor não sabe o que desdenha. Já vi as mais honradas pessoas quase aniquiladas por ela. Creia-me que não há maldade banal, horror, história absurda, que não se consiga, com algum jeito, propalar entre os ociosos de uma cidade grande; e temos aqui gente de uma habilidade!… Primeiro, um leve ruído, como uma andorinha rasando o chão antes da tempestade, pianíssimo murmura e toma voo, e semeia correndo o traço envenenado. Uma boca o recolhe e, piano, piano, insinua-o habilmente num ouvido. O mal está feito, ele germina, alastra-se, caminha, e rinforzando de boca em boca, segue o seu destino; depois de repente, não se sabe como, vê-se a calúnia erguer-se, silvar, inflar-se, crescer a olhos vistos; ela lança-se, alarga o seu voo, turbilhona, envolve, arranca, arrasta, rebenta e reboa, e torna-se, graças ao Céu, num clamor geral, num crescendo público, num coro universal de ódio e proscrição. Quem lhe resistiria?”

“O Barbeiro de Sevilha”, Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais,  ato II, cena 8

sábado, 26 de março de 2022

Oração pela paz


 

Ó Mãe de Deus e Mãe nossa, Padroeira da Ucrânia, nestes tempos de guerra, o nosso coração volta-se para Vós!

Socorrei os vossos filhos ucranianos, tão necessitados da vossa maternal proteção. Ponde-Vos ao seu lado, dando-lhes força e ânimo para enfrentar com coragem as misérias e as agruras da guerra, e confortai-os nas dores e sofrimentos indizíveis que padecem. Tende piedade de tantas mães, angustiadas pelo destino dos seus filhos, de tantos órfãos, de milhares de cidadãos comuns que se tornaram soldados sem preparação. Tende piedade da Ucrânia, sobre a qual se avizinha tanta ruína!

Incuti-lhes a firme confiança, no Vosso socorro e triunfo final, ó Mãe de Misericórdia.


(Rezar 3 Ave-Marias).

segunda-feira, 31 de janeiro de 2022

O discurso violento é contraproducente: o exemplo de Benjamim Franklin

Se ao apresentar as suas ideias usa palavras violentas, gosta de contradizer o seu interlocutor, tem muita facilidade nas polémicas, mas vê que o resultado não é sempre positivo, conheça a sugestão que Benjamim Franklin, estadista e um dos fundadores dos Estados Unidos, deixou na sua autobiografia. Estas linhas são também muito valiosas para quem pretende envolver-se em algum projeto associativo, pertencer a algum clube, ou partido político.

Na sua juventude, Franklin tinha muitos inimigos e desconhecia a razão.

Com o passar dos anos, deu-se conta de que a causa estava na sua maneira de falar. Como acreditava naquilo que dizia, exprimia-se com convicção e grande segurança. Ora, isto dava-lhe um ar de arrogância, parecendo querer impor aos outros as suas opiniões e julgamentos. Em determinado ponto da sua vida, deu-se conta de que esta maneira de se exprimir era muito prejudicial para as suas ideias e que precisava mudar.

Assim, criou para si uma regra: nunca contradizer diretamente a opinião dos outros, nem de sustentar as suas com muita resolução. Passou a não usar mais palavras, nem expressões que poderiam dar a impressão de que tinha uma ideia fixa, uma teoria que não podia ser melhorada. Baniu do seu vocabulário corrente as palavras: “certamente”, “sem dúvida”, etc., e substitui-as por “presumo”, “parece-me”, “imagino que queira dizer”, “tem-se a impressão de que”.

Se alguém lhe apresentava uma proposta que lhe parecia um erro, continha-se e não tinha o prazer de contradizer rápida e friamente, mostrando o quão absurda era aquela teoria ou ideia. Pelo contrário, começava por procurar aspetos positivos daquela proposição, procurava explicar que em circunstâncias específicas até seria acertada, mas que no momento atual, lhe parecia haver uma diferença a ser considerada, etc.

Aos poucos, o grande estadista, começou a perceber as enormes vantagens da mudança de tom. A conversa ficou mais agradável para os seus interlocutores; a maneira mais modesta de enunciar as suas opiniões, fez com que fossem mais facilmente aceitas as suas propostas, e sem contradições; fez com que se mortificasse menos, quando errava, ou se via contrariado pela realidade; e, sobretudo, fez com que os outros mais facilmente abandonassem os seus erros e aderissem às suas ideias.

Ele não adotou este método sem violentar a sua propensão natural, mas com o tempo ela tornou-se fácil e habitual, a tal ponto que, depois de cinquenta anos de uma vida muito ativa, como escritor, tipógrafo, político, inventor, cientista, estadista e diplomata, as pessoas testemunharam não ter nunca ouvido sair da sua boca uma ideia que não se pudesse melhorar.

Foi este bom hábito, antecedido por uma certa reputação de integridade moral, o fator predominante para alcançar confiança junto dos americanos. Quando ele propunha ou alguma instituição nova ou a reforma de velhas estruturas administrativas e públicas, o povo acreditava nele.

Alguém poderia pensar: Benjamim Franklin era um grande orador e para este tipo de pessoas, tudo é mais fácil. Ora, isto não é verdade. Ele mesmo afirma ter sido uma pessoa sem eloquência, hesitante na escolha das palavras, medianamente correto na linguagem, mas que convencia quando falava.

Assim devemos ser nós, do que adianta defendermos boas ideias, bons ideais e até as verdades da nossa Fé, se não conseguimos convencer ninguém? Talvez, seja preciso mudar o tom do nosso discurso... Sem pactuar, é claro, com o erro!





quarta-feira, 19 de janeiro de 2022

As palavras movem, mas os exemplos arrastam



Encontramos na vida de São Francisco de Assis um facto que atesta, como o exemplo toca muito mais os corações do que as palavras.

Certa vez, São Francisco chamou Frei Leão e disse-lhe:

— Meu irmão, vamos pregar!

Depois de longos passeios pelas ruelas pitorescas de Assis, voltaram ao convento.

"Pai", disse o jovem monge ao santo, "não íamos pregar?"

"Meu filho", respondeu São Francisco, "durante este passeio, pregamos".

"Como, meu pai?" disse o jovem monge atônito.

"Pela nossa pobreza e modéstia", acrescentou o santo.

São Francisco quis assim fazer com que este religioso, ainda noviço, entendesse que o exemplo muitas vezes equivale a uma longa e boa pregação.

Outro exemplo que ilustra a força do exemplo, remonta à época das missões do Japão.

Um religioso da Companhia de Jesus pregava numa praça pública. Uma grande multidão ouvia-o com atenção, interesse e até avidez, quando um dos assistentes se aproximou do orador e cuspiu-lhe na face.

O santo religioso, sem se comover, enxugou o rosto e continuou o sermão.

Os ouvintes, tomados de admiração, comentaram entre si:

"Uma religião que dá forças suficientes para aceitar sem se queixar de tamanha ignomínia, só pode ser divina!..."

E um grande número de pagãos converteu-se mais pelo gesto do que pelas palavras.

E nós! Qual o exemplo que damos quando saímos à rua, vamos ao trabalho, passeamos ou quando estamos em família, entre amigos ou até com desconhecidos?

A nossa maneira de vestir, as nossas conversas, os nossos gestos são coerentes com o que professamos e acreditamos? Ou acabamos por dar mal exemplo e sermos como o Frei Tomás do provérbio popular, que predica e pede para as pessoas fazerem aquilo que ele diz e não o que faz?”


sábado, 8 de janeiro de 2022

Cristo Protetor, a maior imagem de Nosso Senhor Jesus Cristo do Brasil

Cristo Protetor - Agencia Leonardo Capitanio - Konce
Uma imagem de Nosso Senhor Jesus Cristo está a ser levantada na cidade de Encantado, no Estado brasileiro do Rio Grande do Sul e será o maior Cristo do Brasil, superando até o tamanho da imagem do Corcovado, no Rio de Janeiro.

Trata-se de um “Cristo Protetor”, nascido da fé e devoção do povo, que medirá 43,5 metros de altura e cuja envergadura dos braços terá 39 metros.

Nos últimos dias de 2021, o governador do Estado e o prefeito da cidade de Taquari assinaram um acordo para a construção das estradas e dos acessos pedonais, que darão acesso ao monumento.

No dia 22 de dezembro, o coração do Cristo Protetor foi concluído e espera-se que a inauguração da estátua aconteça em janeiro de 2022. 

Catholic nurse unfairly dismissed over cross necklace, UK tribunal rules

A Catholic nurse was unfairly dismissed by a U.K. hospital trust for wearing a cross necklace, an employment tribunal ruled this week.


In a decision published on Jan. 5, the tribunal said that the trust’s treatment of Mary Onuoha was “directly discriminatory.”

The campaign group Christian Concern hailed the verdict as a “landmark ruling” strengthening the legal principle that employers cannot discriminate against employees for “reasonable manifestations” of faith in the workplace.

Onuoha was forced to leave her job as a National Health Service (NHS) theater practitioner at Croydon University Hospital in south London in June 2020 after a two-year battle with her employers over wearing the cross.

With support from the Christian Legal Centre, Christian Concern’s legal ministry, she took her case against Croydon Health Services NHS Trust to an employment tribunal.

At a hearing in October 2021, the trust argued that the cross necklace had presented an infection risk. But the tribunal concluded that the risk was “very low.”

It added that there was “no cogent explanation” of why religious head coverings such as hijabs and turbans were permitted under the dress code and uniform policy, but “a fine necklace with a small pendant of religious devotional significance is not.”

Christian Concern said that Onuoha, who was born in Nigeria and moved to the U.K. in 1988, was delighted and relieved by the ruling.

Andrea Williams, chief executive of the Christian Legal Centre, commented: “From the beginning, this case has been about the high-handed attack from the NHS bureaucracy on the right of a devoted and industrious nurse to wear a cross — the worldwide, recognized and cherished symbol of the Christian faith. It is very uplifting to see the tribunal acknowledge this truth.”

“It was astonishing that an experienced nurse, during a pandemic, was forced to choose between her faith and the profession she loves.”

“Any employer will now have to think very carefully before restricting wearing of crosses in the workplace. You can only do that on specific and cogent health and safety grounds. It is not enough to apply general labels such as ‘infection risk’ or ‘health and safety.’”

The U.K. has seen a number of high-profile cases of employers demanding that employees remove or cover cross necklaces.

In 2013, the European Court of Human Rights ruled in favor of Nadia Eweida, a Coptic Christian who was asked by her employer British Airways to cover up her white gold cross.

But the court declined to support Shirley Chaplin, a nurse who was told by the Royal Devon and Exeter NHS trust hospital not to wear a cross necklace, on health and safety grounds, that she had worn to work for 30 years.

“We are delighted that the tribunal have ruled in Mary’s favor and delivered justice in this case,” Williams said.

“Shirley Chaplin, who also fought for the freedom to wear a cross necklace 10 years ago has also now been vindicated.”

Catholic News Agency, London, England, Jan 7, 2022

sexta-feira, 7 de janeiro de 2022

Amar a Deus por interesse

A festa de Baltazar - John Martin,
Yale University Art Gallery, New Have, Connecticut, USA

Se a prosperidade e os bens temporais estivessem ligados à virtude, não amaríamos a Deus por ser o nosso Criador e Senhor do Céu e da Terra, mas procuraríamos amá-Lo por interesse.

Santo Agostinho assim explicou este problema:

Algumas pessoas, quando vêm os inimigos de Deus e os libertinos no meio das riquezas, pensam: “Tenho servido a Deus por muito tempo, guardado os Seus mandamentos e cumprindo todos os deveres da religião. No entanto, meu destino ainda é o mesmo; os meus negócios não são os mais prósperos, e até parece que Deus se encarrega de os contrariar. Pelo contrário, os que vivem no mal, sem regras, sem religião, não param de gozar de uma saúde férrea, acumulando bens atrás de bens, sendo honrados e distinguidos”.

Mas um verdadeiro católico deve amar a Deus por causa da saúde do corpo, dos bens e das honras? É claro que não. A privação de todas estas coisas, muitas vezes, acontece para que se aprenda a amá-Lo não pelo que Ele dá, mas pelo que Ele é!

Acrescenta ainda Santo Agostinho que, se uma pessoa é justa, vive na amizade com Deus, em estado e ordem da Graça.

Ora, como esta Graça, que é uma participação criada na vida incriada de Deus, nos é dada de forma totalmente gratuita, não devemos amá-Lo por outra recompensa senão a de O receber, como ensina o livro da Génese: “Serei Eu mesmo a vossa recompensa demasiadamente grande” (Gn 15, 1).

Realmente, se pensarmos bem, se os bens da terra estivessem ligados ao cumprimento dos Mandamentos e à nossa vida espiritual, o nosso amor passaria de autêntico para uma espécie de amor mercenário.

Assim, quanto mais reclamamos quando Deus recusa de nos dar, ou retira de nós, os bens materiais, mais devemos considerar o quanto eles seriam perigosos, caso os possuíssemos!

Vale a pena pensar nisto!

quinta-feira, 6 de janeiro de 2022

Ricominciare sempre


All’inizio di un nuovo anno, ricordiamo un importante consiglio di San Leone Magno:

Non ti arrendere mai,

neanche quando la fatica si fa sentire,

neanche quando il tuo piede inciampa,

neanche quando i tuoi occhi bruciano,

neanche quando i tuoi sforzi sono ignorati,

neanche quando la delusione ti avvilisce,

neanche quando l'errore ti scoraggia,

neanche quando il tradimento ti ferisce,

neanche quando il successo ti abbandona,

neanche quando l'ingratitudine ti sgomenta,

neanche quando l'incomprensione ti circonda,

neanche quando la noia ti atterra,

neanche quando tutto ha l'aria del niente,

neanche quando il peso del peccato ti schiaccia...

Invoca il tuo Dio, stringi i pugni, sorridi... e ricomincia!