Alla morte di san Benedetto di Norcia rimanevano tre centri almeno di vita
monastica, ordinati secondo la sua Regola, e impregnati del suo spirito:
Subiaco, Montecassino, Terracina.
Del monastero di Terracina oggi non rimane più che il ricordo. Travolti, e
alcuni senza lasciar traccia, dall'invasione longobarda, sugli inizi del secolo
VII i dodici monasteri sublacensi, essi risorsero, in maggior conformità con la
concezione del santo Patriarca, nell'unico grande cenobio di Santa Scolastica,
sviluppatosi dalla cellula primitiva dedicata ai santi Cosma e Damiano, mentre
la pietà dei figli non tardò a imporre l'erezione di un nuovo monastero al
Sacro Speco, dove, il santuario, ricco di memorie e di insigni opere d'arte,
custodisce nel suo cuore la grotta che conobbe il segreto fiorire della santità
di Benedetto.
In pieno rigoglio di vita soprannaturale e di attività operosa
Montecassino, fino a che nel 577 i Longobardi non vi portarono la devastazione
riducendo il monastero a un informe cumulo di rovine. Sulla tomba sempre venerata
del Santo, tra il 717 e 248 il 720 Petronace riedificava i chiostri distrutti,
e la vita monastica tornò a riordinarsi tranquilla.
Ma nell'883 i Saraceni, invasa l'Abbazia, la saccheggiarono e demolirono in
gran parte, dopo averne trucidato i monaci con a capo l'abate san Bertario. Per
un secolo e mezzo circa fu ancora la desolazione e lo squallore intorno al
sepolcro di san Benedetto.
Da questa disastrosa situazione doveva però sorgere, sotto il governo
dell'abate Aligerno, intorno alla metà del secolo X, una nuova rigogliosa
primavera di vita durante la quale Montecassino avrebbe raggiunto l'apogeo
della sua grandezza. Una terza volta il monastero, che appariva ai
contemporanei «il più bello della cristianità», sembrò votato alla distruzione,
e tornò a divenire un ammasso di macerie. Questa volta, però, non fu per mano
di uomini, ma per lo spaventoso terremoto del 9 settembre 1349; in complesso la
ricostruzione degli edifici monastici fu rapida, e poté condursi a termine in
pochi decenni, soprattutto per l'interesse personale ed efficacissimo del
pontefice Urbano V.
L'alba del secolo XVI portò nuove devastazioni a causa della guerra tra spagnoli
e francesi che appunto si decise alla fine del 1503 nella battaglia del
Garigliano, e «per la veneranda casa di san Benedetto i danni della guerra,
combattuta nei suoi chiostri e conchiusasi alle sue porte, sarebbero rimasti
forse inguaribili, se la Provvidenza non fosse di nuovo intervenuta pronta al
suo soccorso in una maniera fuor dell'usato, ma più consona ai tempi e tale da
segnare una svolta nella sua ormai millenaria storia » (LECCISOTTI T., Montecassino, p. 68,
Vallecchi, Firenze.).
Giorni tristi si conobbero ancora sotto il dominio francese, e poi durante
tutto il secolo XIX per le vicende politiche d'Italia, ma dopo ogni raffica la
vita tornava a scaturire più rigogliosa, fino a che, mentre la badia era in
pieno fervore di opere sante non si abbatté su di essa, a stendervi «la
desolazione estrema» l'ultima bufera che il 15 febbraio 1944 «ha distrutto e
annientato quella celebre sede di studi e di pietà che quasi luce vincitrice
delle tenebre, era emersa dalle onde dei secoli» (Encicl. «Fulgens radiatur» ) per la quarta volta nel corso di
quattordici secoli. «Al presente, ove prima risplendevano artistici monumenti,
vi sono mura pericolanti, macerie e rovine, che i rovi miseramente ricoprono.» (Encicl. «Fulgens radiatur» ). È rimasta illesa solo la tomba
del santo Patriarca, ma oggi intorno ad essa la vita inestinguibile di
Montecassino è tornata ad affermarsi vigorosa; sfuggendo alla violenza degli
uomini, perché è spirito e attinge in Dio la sua perennità.
Non erano trascorsi ancora cinquant'anni dalla morte di san Benedetto,
quando un monaco, che fu insieme uno dei Papi più grandi della Chiesa, san
Gregorio Magno, ammiratore e fervido restauratore della vita monastica,
abbracciando col suo sguardo illuminato tutto il valore dell'opera compiuta dal
santo di Norcia, dopo aver contribuito, scrivendone la vita nel libro II dei
Dialoghi a divulgarne la memoria, dette il più forte impulso alla diffusione
della Regola che divenne così ben presto l'unica norma di vita nei monasteri
già esistenti e nei nuovi che si venivano formando. Abbazia di Subiaco
Qualunque sia il valore che noi vogliamo dare alla tradizione la quale lega
alla memoria di san Mauro l'introduzione della Regola benedettina in Francia,
non si può però dubitare che essa vi si stabilisse molto presto, benché
dapprima in genere insieme a quella di san Colombano, che finì poi rapidamente
col soppiantare del tutto, così che nel 630 lo stesso monastero di Lureuil,
considerato come la roccaforte del monachismo celtico, adottava in pieno la
Regola di san Benedetto.
Già nel 596, san Gregorio Magno aveva affidato a una colonia monastica,
guidata dal monaco Agostino, l'ardua impresa di evangelizzare l'Inghilterra
ancora pagana, spingendo così i figli di san Benedetto fino alle regioni più
settentrionali dell'Europa.
La seconda metà del secolo VII vede i monaci benedettini nel Belgio, mentre
altri confratelli più arditi, dalle coste dell'Anglia sbarcano nella Frisia per
muovere di lì alla conversione del mondo germanico; impresa audace dagli ampi
sviluppi, che culminerà nel 754, quando ormai il cristianesimo avrà messo salde
radici nella Germania, col martirio di san Bonifacio, massacrato con i suoi
compagni mentre si accingeva a conquistare alla fede la Frisia del Nord.
Nello stesso tempo che Bonifacio lavorava alla fondazione e al
consolidamento della Chiesa nella Germania centrale, nelle regioni meridionali
san Pirmino, fondata nel 724 l'Abbazia di Reichenau, compiva uno sforzo
analogo, riuscendo a far penetrare la Regola benedettina, e con essa la vita
cristiana, nella Svizzera, dove fondò il monastero di Pfafers.
Sul principio del secolo IX moriva san Ludgero, l'apostolo della
Westphalia, e contemporaneamente penetrava nella Catalogna la Regola di san
Benedetto, forse già da prima stabilita nelle altre parti della Spagna. Fu
questa stessa prima metà del IX secolo che vide gli sforzi di sant' Anscario
per la conversione della Scandinavia e della Danimarca, operata tra difficoltà
d'ogni genere e sigillata col martirio del Santo.
Anche in Polonia i figli di san Benedetto introdussero con la vita
monastica il cristianesimo, nella seconda metà del X secolo, mentre un altro
monaco, sant'Adalberto, portando il Vangelo agli Slavi, ne ricevette il
martirio. Contemporaneamente dal monastero di Einsiedeln, in Svizzera,
ricevevano le prime nozioni del cristianesimo gli Ungheresi, dei quali con molta
verità si è potuto dire che sono stati generati spiritualmente e
intellettualmente dall'ordine benedettino.
Prima che tramontasse il secolo X fu fondato in Boemia il primo monastero
benedetttino a Brewnov, e finalmente, col XII secolo, i monaci penetravano
nell'Albania, portandovi, come nel secolo precedente avevano fatto nella
Dalmazia, la cultura e le tradizioni latine.
«Come nelle epoche precedenti, lungo le vie consolari, avanzavano le
legioni romane, nello sforzo di soggiogare al dominio dell'Alma Città tutte le
genti, così ora coorti innumerevoli di monaci che non hanno "armi terrene,
ma la potenza che viene da Dio", come affermava San Paolo ai Corinzi,
vengono mandate dal Sommo Pontefice a propagare gloriosamente fino agli estremi
confini del mondo il regno pacifico di Gesù Cristo, non con la spada, la
violenza, o le stragi, ma con la croce e l'aratro, con la verità e la carità.
Ed ecco che dovunque si stabilivano tali inermi coorti, formate da predicatori
della religione cristiana, da operai, da, agricoltori, da maestri delle scienze
divine e umane, ivi venivano solcate con l'aratro le terre inselvatichite e
incolte; sorgevano le abitazioni degli operai e degli artisti, e da una vita
selvaggia e rozza gli uomini venivano formati al civile consorzio, e ad
abitudini più progredite, mentre brillava davanti a loro la luce della dottrina
e della virtù evangelica. «Apostoli innumerevoli, brucianti di divina carità,
percorsero sconosciute e turbolenti regioni d'Europa, le bagnarono col loro
sudore generoso e col sangue e dopo averne pacificato le popolazioni vi
introdussero la luce della santità e della verità. Perciò si può nettamente
affermare che quantunque Roma, già dilatatasi per le molte vittorie, abbia
esteso il suo dominio per terra e per mare, pur tuttavia" fu meno ciò che
a lei sottomise il travaglio delle guerre di quel che non le soggiogò la pace
cristiana". (S.
LEONE MAGNO, Serm. I in natali App. Petri et Pauli).
In maniera che non solo la Britannia, la Gallia, la Batavia, la Frisia, la
Danimarca, la Germania, la Pannonia e la Scandinavia, ma anche non poche
nazioni slave si fanno vanto dell'apostolato di questi monaci e li stimano
gloria propria e illustri padri della loro civiltà» (Encicl. «Fulgens radiatur»).
L'età di mezzo conobbe la massima diffusione del monachesimo benedettino.
Orderico Vitale, nella prima metà del secolo XII assegnava alla sola osservanza
di Cluny duemila monasteri, la massima parte in Francia, e a migliaia si
contavano negli altri paesi d'Europa quelli di diversa osservanza, così che una
fitta rete di abbazie, di priorati, di semplici «celle» mantenevano la società
sotto l'influsso santificante della Regola di san Benedetto attraverso quei
centri irradiatori che stendevano le loro propaggini in tutte le categorie
sociali permeandone e spesso elevandone la vita a un piano superiore di valori
soprannaturali.
Avvenne anche, purtroppo, a varie riprese, che lo spirito e la mentalità
del mondo, fatta breccia nella clausura monastica, minacciasse di travolgere e snaturare
la sua vita profonda, ma a ogni periodo di decadenza seguirono epoche di
ripresa e maggior splendore di santità. La Riforma protestante dapprima, i moti
rivoluzionari dei secoli XVIII e XIX poi, sembrarono colpire mortalmente
l'ordine monastico.
In realtà, lo stesso secolo XIX assistette al suo rifiorire accompagnato
dal diffondersi della Regola benedettina nel mondo intero, fino nella lontana
Australia. Per spiegare l'influsso sociale del monachesimo benedettino, bisogna
anzitutto rendersi conto dell'attività economica necessariamente connessa fin
dalle origini con ogni monastero, nucleo centrale e stabile intorno al quale si
sviluppava la proprietà fondiaria sotto le diverse forme comuni agli usi del
tempo, e in processo continuo di arricchimento per via di acquisto o, più comunemente,
di donazione.
La coltivazione di questi domini, spesso assai vasti non poteva essere
compiuta in maniera diretta dai monaci che dovettero ricercare il concorso
della mano d'opera estranea, sotto forma di braccianti, di servi, o di coloni.
Le opere da compiere erano gigantesche: dissodamento delle foreste, bonifica
dei terreni insalubri, coltivazione razionale dei campi, vasti allevamenti di
bestiame. Tutto questo importava un'attrezzatura complessa, direzione
intelligente e mezzi proporzionati alle esigenze di un lavoro da eseguirsi su
larga scala. In epoche di totale disorganizzazione, l'Abbazia era il centro che
solo aveva la possibilità di questo impianto, e per naturale conseguenza i
monaci si trovarono nella necessità di divenire gli educatori economici del
popolo: «i loro domini sono esemplari compiuti di buono sfruttamento agricolo e
di saggia amministrazione, e se numerosi abati hanno lasciato fama di santità,
più di uno ha insieme meritato fama di abile agronomo» (PIRENNE H., Histoire de Belgique, t.
I, p. 146.).
Conseguenza dell'operosità monastica e del complesso di interessi che ad essa vennero ben presto a intrecciarsi, con l'urgente necessità di sbocco per la produzione eccedente i bisogni di consumo del monastero e delle sue dipendenze, e di scambi con altri generi, fu l'organizzazione del commercio, dapprima in forma rudimentale, poi con un raggio sempre maggiore così da imporre il problema di provvedere adeguate possibilità di trasporto delle merci, per via di terra, di mare, o fluviale.
Cominciarono a fiorire anche le industrie, nelle officine monastiche dove
numerosi operai venivano addestrati ai vari lavori richiesti dai bisogni della
comunità intorno alla quale si stringevano le famiglie di tutti questi
dipendenti, spesso così numerose da formare dei veri villaggi, dai quali non di
rado ebbero origine le stesse città. Le rendite, che potevano così divenire
considerevoli, oltre al mantenimento del monastero stesso, venivano impiegate o
nell'incremento del patrimonio monastico, o, in ben più larga misura, in opere
di beneficenza di incalcolabile valore in quei tempi e nelle condizioni di vita
che vi erano legate.
Opere di pubblica utilità, strade, ponti, canali, andarono moltiplicandosi
nelle terre dipendenti dalle abbazie, mentre concedendo dei crediti senza
interesse, col semplice deposito di un pegno, si preludeva alla geniale
istituzione dei «monti di pietà», e ospedali, ospizi, larghe elemosine ai
bisognosi, venivano incontro, nei modi più opportuni e multiformi a tutte le
miserie alle quali nessun altro avrebbe pensato a prestar soccorso. Per secoli
interi la beneficenza, sotto tutte le sue forme, può dirsi gloria benedettina.
Non doveva però limitarsi a questo l'influsso sociale dei monaci, ché esso ebbe
risonanze non meno profonde anche nel campo intellettuale, e si poté senza
esagerare attribuire ad essi la salvezza del patrimonio culturale del mondo
antico, tra le distruzioni operate dalle invasioni barbariche.
Fin dalle origini i monasteri ebbero le loro scuole, indispensabili alla
formazione dei piccoli oblati che si venivano educando alla vita monastica la
quale esige una non indifferente preparazione anche intellettuale; a queste
scuole interne, in un intento di carità della quale forse oggi non è facile
misurare la portata, non tardarono ad aggiungersi anche le scuole esterne che
raggiunsero in alcuni luoghi grande celebrità e dalle quali uscirono gli
uomini più grandi del loro secolo, determinando così un irraggiamento luminoso
di dottrina che doveva gettare fasci di luce in mezzo all'oscurità della
barbarie.
Biblioteca dell'Abbazia di Admont - Austria
Accanto alla scuola, e strettamente connesso con essa, ogni monastero ebbe
lo «scriptorium» ossia un laboratorio di copiatura e trascrizione dei codici;
organo silenzioso nel quale il lavoro paziente degli amanuensi moltiplicava i
libri, facilitandone la conoscenza e lo studio, e con esso l'amore della
cultura classica e delle grandi opere religiose dell'antichità. Questi codici,
spesso artisticamente miniati, erano ricercati con avidità e gelosamente
custoditi nelle biblioteche, di importanza maggiore o minore a seconda delle
diverse esigenze dei monasteri, ma sempre considerate come uno dei più preziosi
tesori della comunità. San Benedetto Biscopo morente imita sant'Agostino
vescovo di Ippona, e lascia come testamento ai suoi monaci due raccomandazioni
solenni: la regolarità della vita e l'amore della biblioteca.
Essi pensavano come san Girolamo: «Se tu preghi parli allo Sposo, ma quando
leggi è Lui che parla a te.»
I libri erano la loro luce, la loro forza. Molte biblioteche si sono
compiaciute di scrivere sulla porta d'ingresso: «Claustrum sine armario quasi
castrum sin e armamentario» espressione tradotta in un proverbio medievale
francese: «Monastero senza libri, fortezza senz'armi» (SCHMITZ, Histoire de l'Ordre de Saint
Benoit, t. II, pa. 71. Ediz. Maredsous, 1942.).
Oggi ancora la vita
benedettina ha una sua parola profonda da dire alle anime. Diversa nei suoi
aspetti esteriori, offre nell'America le sue grandi abbazie operose di una
multiforme e intensa attività; porta come nei secoli remoti la luce del Vangelo
e i benefici della civiltà nell'Australia e nell'Africa, dove intorno ai
monasteri si sono formate missioni fiorentissime; in Europa, a Solesmes, il
canto gregoriano è scientificamente studiato in una scuola di risonanza
mondiale; a Einsiedeln, i monaci curano magnifiche opere di carattere religioso
e sociale; in Italia, nel Belgio, in Inghilterra, in Germania, in Austria, in
Spagna, le grandi abbazie svolgono una operosità intensa nel campo liturgico,
scientifico, educativo, per non dire del lavoro che si compie nel campo
specificamente religioso con quelle forme di ministero che sono più confacenti
alla vita monastica. Ed è dei nostri giorni una promettente fioritura di
santità che attesta la fecondità inesausta della Regola santa che da
quattordici secoli continua a indicare alle anime che sentono più viva
l'urgenza del soprannaturale, la via faticosa per la quale «tornare a Colui dal
quale per la pigrizia della disobbedienza ci eravamo allontanati» (Regola, prologo).
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