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domingo, 10 de julho de 2022

L'eredità di San Benedetto

 


Alla morte di san Benedetto di Norcia rimanevano tre centri almeno di vita monastica, ordinati secondo la sua Regola, e impregnati del suo spirito: Subiaco, Montecassino, Terracina.

Del monastero di Terracina oggi non rimane più che il ricordo. Travolti, e alcuni senza lasciar traccia, dall'invasione longobarda, sugli inizi del secolo VII i dodici monasteri sublacensi, essi risorsero, in maggior conformità con la concezione del santo Patriarca, nell'unico grande cenobio di Santa Scolastica, sviluppatosi dalla cellula primitiva dedicata ai santi Cosma e Damiano, mentre la pietà dei figli non tardò a imporre l'erezione di un nuovo monastero al Sacro Speco, dove, il santuario, ricco di memorie e di insigni opere d'arte, custodisce nel suo cuore la grotta che conobbe il segreto fiorire della santità di Benedetto.

In pieno rigoglio di vita soprannaturale e di attività operosa Montecassino, fino a che nel 577 i Longobardi non vi portarono la devastazione riducendo il monastero a un informe cumulo di rovine. Sulla tomba sempre venerata del Santo, tra il 717 e 248 il 720 Petronace riedificava i chiostri distrutti, e la vita monastica tornò a riordinarsi tranquilla.

Ma nell'883 i Saraceni, invasa l'Abbazia, la saccheggiarono e demolirono in gran parte, dopo averne trucidato i monaci con a capo l'abate san Bertario. Per un secolo e mezzo circa fu ancora la desolazione e lo squallore intorno al sepolcro di san Benedetto.


Da questa disastrosa situazione doveva però sorgere, sotto il governo dell'abate Aligerno, intorno alla metà del secolo X, una nuova rigogliosa primavera di vita durante la quale Montecassino avrebbe raggiunto l'apogeo della sua grandezza. Una terza volta il monastero, che appariva ai contemporanei «il più bello della cristianità», sembrò votato alla distruzione, e tornò a divenire un ammasso di macerie. Questa volta, però, non fu per mano di uomini, ma per lo spaventoso terremoto del 9 settembre 1349; in complesso la ricostruzione degli edifici monastici fu rapida, e poté condursi a termine in pochi decenni, soprattutto per l'interesse personale ed efficacissimo del pontefice Urbano V.

L'alba del secolo XVI portò nuove devastazioni a causa della guerra tra spagnoli e francesi che appunto si decise alla fine del 1503 nella battaglia del Garigliano, e «per la veneranda casa di san Benedetto i danni della guerra, combattuta nei suoi chiostri e conchiusasi alle sue porte, sarebbero rimasti forse inguaribili, se la Provvidenza non fosse di nuovo intervenuta pronta al suo soccorso in una maniera fuor dell'usato, ma più consona ai tempi e tale da segnare una svolta nella sua ormai millenaria storia » (LECCISOTTI T., Montecassino, p. 68, Vallecchi, Firenze.).

Giorni tristi si conobbero ancora sotto il dominio francese, e poi durante tutto il secolo XIX per le vicende politiche d'Italia, ma dopo ogni raffica la vita tornava a scaturire più rigogliosa, fino a che, mentre la badia era in pieno fervore di opere sante non si abbatté su di essa, a stendervi «la desolazione estrema» l'ultima bufera che il 15 febbraio 1944 «ha distrutto e annientato quella celebre sede di studi e di pietà che quasi luce vincitrice delle tenebre, era emersa dalle onde dei secoli» (Encicl. «Fulgens radiatur» ) per la quarta volta nel corso di quattordici secoli. «Al presente, ove prima risplendevano artistici monumenti, vi sono mura pericolanti, macerie e rovine, che i rovi miseramente ricoprono.» (Encicl. «Fulgens radiatur» ). È rimasta illesa solo la tomba del santo Patriarca, ma oggi intorno ad essa la vita inestinguibile di Montecassino è tornata ad affermarsi vigorosa; sfuggendo alla violenza degli uomini, perché è spirito e attinge in Dio la sua perennità.

Non erano trascorsi ancora cinquant'anni dalla morte di san Benedetto, quando un monaco, che fu insieme uno dei Papi più grandi della Chiesa, san Gregorio Magno, ammiratore e fervido restauratore della vita monastica, abbracciando col suo sguardo illuminato tutto il valore dell'opera compiuta dal santo di Norcia, dopo aver contribuito, scrivendone la vita nel libro II dei Dialoghi a divulgarne la memoria, dette il più forte impulso alla diffusione della Regola che divenne così ben presto l'unica norma di vita nei monasteri già esistenti e nei nuovi che si venivano formando.

Abbazia di Subiaco

Qualunque sia il valore che noi vogliamo dare alla tradizione la quale lega alla memoria di san Mauro l'introduzione della Regola benedettina in Francia, non si può però dubitare che essa vi si stabilisse molto presto, benché dapprima in genere insieme a quella di san Colombano, che finì poi rapidamente col soppiantare del tutto, così che nel 630 lo stesso monastero di Lureuil, considerato come la roccaforte del monachismo celtico, adottava in pieno la Regola di san Benedetto.

Già nel 596, san Gregorio Magno aveva affidato a una colonia monastica, guidata dal monaco Agostino, l'ardua impresa di evangelizzare l'Inghilterra ancora pagana, spingendo così i figli di san Benedetto fino alle regioni più settentrionali dell'Europa.

La seconda metà del secolo VII vede i monaci benedettini nel Belgio, mentre altri confratelli più arditi, dalle coste dell'Anglia sbarcano nella Frisia per muovere di lì alla conversione del mondo germanico; impresa audace dagli ampi sviluppi, che culminerà nel 754, quando ormai il cristianesimo avrà messo salde radici nella Germania, col martirio di san Bonifacio, massacrato con i suoi compagni mentre si accingeva a conquistare alla fede la Frisia del Nord.

Nello stesso tempo che Bonifacio lavorava alla fondazione e al consolidamento della Chiesa nella Germania centrale, nelle regioni meridionali san Pirmino, fondata nel 724 l'Abbazia di Reichenau, compiva uno sforzo analogo, riuscendo a far penetrare la Regola benedettina, e con essa la vita cristiana, nella Svizzera, dove fondò il monastero di Pfafers.

Sul principio del secolo IX moriva san Ludgero, l'apostolo della Westphalia, e contemporaneamente penetrava nella Catalogna la Regola di san Benedetto, forse già da prima stabilita nelle altre parti della Spagna. Fu questa stessa prima metà del IX secolo che vide gli sforzi di sant' Anscario per la conversione della Scandinavia e della Danimarca, operata tra difficoltà d'ogni genere e sigillata col martirio del Santo.

Anche in Polonia i figli di san Benedetto introdussero con la vita monastica il cristianesimo, nella seconda metà del X secolo, mentre un altro monaco, sant'Adalberto, portando il Vangelo agli Slavi, ne ricevette il martirio. Contemporaneamente dal monastero di Einsiedeln, in Svizzera, ricevevano le prime nozioni del cristianesimo gli Ungheresi, dei quali con molta verità si è potuto dire che sono stati generati spiritualmente e intellettualmente dall'ordine benedettino.

Prima che tramontasse il secolo X fu fondato in Boemia il primo monastero benedetttino a Brewnov, e finalmente, col XII secolo, i monaci penetravano nell'Albania, portandovi, come nel secolo precedente avevano fatto nella Dalmazia, la cultura e le tradizioni latine.

«Come nelle epoche precedenti, lungo le vie consolari, avanzavano le legioni romane, nello sforzo di soggiogare al dominio dell'Alma Città tutte le genti, così ora coorti innumerevoli di monaci che non hanno "armi terrene, ma la potenza che viene da Dio", come affermava San Paolo ai Corinzi, vengono mandate dal Sommo Pontefice a propagare gloriosamente fino agli estremi confini del mondo il regno pacifico di Gesù Cristo, non con la spada, la violenza, o le stragi, ma con la croce e l'aratro, con la verità e la carità. Ed ecco che dovunque si stabilivano tali inermi coorti, formate da predicatori della religione cristiana, da operai, da, agricoltori, da maestri delle scienze divine e umane, ivi venivano solcate con l'aratro le terre inselvatichite e incolte; sorgevano le abitazioni degli operai e degli artisti, e da una vita selvaggia e rozza gli uomini venivano formati al civile consorzio, e ad abitudini più progredite, mentre brillava davanti a loro la luce della dottrina e della virtù evangelica. «Apostoli innumerevoli, brucianti di divina carità, percorsero sconosciute e turbolenti regioni d'Europa, le bagnarono col loro sudore generoso e col sangue e dopo averne pacificato le popolazioni vi introdussero la luce della santità e della verità. Perciò si può nettamente affermare che quantunque Roma, già dilatatasi per le molte vittorie, abbia esteso il suo dominio per terra e per mare, pur tuttavia" fu meno ciò che a lei sottomise il travaglio delle guerre di quel che non le soggiogò la pace cristiana". (S. LEONE MAGNO, Serm. I in natali App. Petri et Pauli).

In maniera che non solo la Britannia, la Gallia, la Batavia, la Frisia, la Danimarca, la Germania, la Pannonia e la Scandinavia, ma anche non poche nazioni slave si fanno vanto dell'apostolato di questi monaci e li stimano gloria propria e illustri padri della loro civiltà» (Encicl. «Fulgens radiatur»).

L'età di mezzo conobbe la massima diffusione del monachesimo benedettino. Orderico Vitale, nella prima metà del secolo XII assegnava alla sola osservanza di Cluny duemila monasteri, la massima parte in Francia, e a migliaia si contavano negli altri paesi d'Europa quelli di diversa osservanza, così che una fitta rete di abbazie, di priorati, di semplici «celle» mantenevano la società sotto l'influsso santificante della Regola di san Benedetto attraverso quei centri irradiatori che stendevano le loro propaggini in tutte le categorie sociali permeandone e spesso elevandone la vita a un piano superiore di valori soprannaturali.

Avvenne anche, purtroppo, a varie riprese, che lo spirito e la mentalità del mondo, fatta breccia nella clausura monastica, minacciasse di travolgere e snaturare la sua vita profonda, ma a ogni periodo di decadenza seguirono epoche di ripresa e maggior splendore di santità. La Riforma protestante dapprima, i moti rivoluzionari dei secoli XVIII e XIX poi, sembrarono colpire mortalmente l'ordine monastico.

In realtà, lo stesso secolo XIX assistette al suo rifiorire accompagnato dal diffondersi della Regola benedettina nel mondo intero, fino nella lontana Australia. Per spiegare l'influsso sociale del monachesimo benedettino, bisogna anzitutto rendersi conto dell'attività economica necessariamente connessa fin dalle origini con ogni monastero, nucleo centrale e stabile intorno al quale si sviluppava la proprietà fondiaria sotto le diverse forme comuni agli usi del tempo, e in processo continuo di arricchimento per via di acquisto o, più comunemente, di donazione.

La coltivazione di questi domini, spesso assai vasti non poteva essere compiuta in maniera diretta dai monaci che dovettero ricercare il concorso della mano d'opera estranea, sotto forma di braccianti, di servi, o di coloni. Le opere da compiere erano gigantesche: dissodamento delle foreste, bonifica dei terreni insalubri, coltivazione razionale dei campi, vasti allevamenti di bestiame. Tutto questo importava un'attrezzatura complessa, direzione intelligente e mezzi proporzionati alle esigenze di un lavoro da eseguirsi su larga scala. In epoche di totale disorganizzazione, l'Abbazia era il centro che solo aveva la possibilità di questo impianto, e per naturale conseguenza i monaci si trovarono nella necessità di divenire gli educatori economici del popolo: «i loro domini sono esemplari compiuti di buono sfruttamento agricolo e di saggia amministrazione, e se numerosi abati hanno lasciato fama di santità, più di uno ha insieme meritato fama di abile agronomo» (PIRENNE H., Histoire de Belgique, t. I, p. 146.).


Conseguenza dell'operosità monastica e del complesso di interessi che ad essa vennero ben presto a intrecciarsi, con l'urgente necessità di sbocco per la produzione eccedente i bisogni di consumo del monastero e delle sue dipendenze, e di scambi con altri generi, fu l'organizzazione del commercio, dapprima in forma rudimentale, poi con un raggio sempre maggiore così da imporre il problema di provvedere adeguate possibilità di trasporto delle merci, per via di terra, di mare, o fluviale.

Cominciarono a fiorire anche le industrie, nelle officine monastiche dove numerosi operai venivano addestrati ai vari lavori richiesti dai bisogni della comunità intorno alla quale si stringevano le famiglie di tutti questi dipendenti, spesso così numerose da formare dei veri villaggi, dai quali non di rado ebbero origine le stesse città. Le rendite, che potevano così divenire considerevoli, oltre al mantenimento del monastero stesso, venivano impiegate o nell'incremento del patrimonio monastico, o, in ben più larga misura, in opere di beneficenza di incalcolabile valore in quei tempi e nelle condizioni di vita che vi erano legate.

Opere di pubblica utilità, strade, ponti, canali, andarono moltiplicandosi nelle terre dipendenti dalle abbazie, mentre concedendo dei crediti senza interesse, col semplice deposito di un pegno, si preludeva alla geniale istituzione dei «monti di pietà», e ospedali, ospizi, larghe elemosine ai bisognosi, venivano incontro, nei modi più opportuni e multiformi a tutte le miserie alle quali nessun altro avrebbe pensato a prestar soccorso. Per secoli interi la beneficenza, sotto tutte le sue forme, può dirsi gloria benedettina. Non doveva però limitarsi a questo l'influsso sociale dei monaci, ché esso ebbe risonanze non meno profonde anche nel campo intellettuale, e si poté senza esagerare attribuire ad essi la salvezza del patrimonio culturale del mondo antico, tra le distruzioni operate dalle invasioni barbariche.

Fin dalle origini i monasteri ebbero le loro scuole, indispensabili alla formazione dei piccoli oblati che si venivano educando alla vita monastica la quale esige una non indifferente preparazione anche intellettuale; a queste scuole interne, in un intento di carità della quale forse oggi non è facile misurare la portata, non tardarono ad aggiungersi anche le scuole esterne che

raggiunsero in alcuni luoghi grande celebrità e dalle quali uscirono gli uomini più grandi del loro secolo, determinando così un irraggiamento luminoso di dottrina che doveva gettare fasci di luce in mezzo all'oscurità della barbarie.

Biblioteca dell'Abbazia di Admont - Austria

Accanto alla scuola, e strettamente connesso con essa, ogni monastero ebbe lo «scriptorium» ossia un laboratorio di copiatura e trascrizione dei codici; organo silenzioso nel quale il lavoro paziente degli amanuensi moltiplicava i libri, facilitandone la conoscenza e lo studio, e con esso l'amore della cultura classica e delle grandi opere religiose dell'antichità. Questi codici, spesso artisticamente miniati, erano ricercati con avidità e gelosamente custoditi nelle biblioteche, di importanza maggiore o minore a seconda delle diverse esigenze dei monasteri, ma sempre considerate come uno dei più preziosi tesori della comunità. San Benedetto Biscopo morente imita sant'Agostino vescovo di Ippona, e lascia come testamento ai suoi monaci due raccomandazioni solenni: la regolarità della vita e l'amore della biblioteca.

Essi pensavano come san Girolamo: «Se tu preghi parli allo Sposo, ma quando leggi è Lui che parla a te.»

I libri erano la loro luce, la loro forza. Molte biblioteche si sono compiaciute di scrivere sulla porta d'ingresso: «Claustrum sine armario quasi castrum sin e armamentario» espressione tradotta in un proverbio medievale francese: «Monastero senza libri, fortezza senz'armi» (SCHMITZ, Histoire de l'Ordre de Saint Benoit, t. II, pa. 71. Ediz. Maredsous, 1942.).  

Oggi ancora la vita benedettina ha una sua parola profonda da dire alle anime. Diversa nei suoi aspetti esteriori, offre nell'America le sue grandi abbazie operose di una multiforme e intensa attività; porta come nei secoli remoti la luce del Vangelo e i benefici della civiltà nell'Australia e nell'Africa, dove intorno ai monasteri si sono formate missioni fiorentissime; in Europa, a Solesmes, il canto gregoriano è scientificamente studiato in una scuola di risonanza mondiale; a Einsiedeln, i monaci curano magnifiche opere di carattere religioso e sociale; in Italia, nel Belgio, in Inghilterra, in Germania, in Austria, in Spagna, le grandi abbazie svolgono una operosità intensa nel campo liturgico, scientifico, educativo, per non dire del lavoro che si compie nel campo specificamente religioso con quelle forme di ministero che sono più confacenti alla vita monastica. Ed è dei nostri giorni una promettente fioritura di santità che attesta la fecondità inesausta della Regola santa che da quattordici secoli continua a indicare alle anime che sentono più viva l'urgenza del soprannaturale, la via faticosa per la quale «tornare a Colui dal quale per la pigrizia della disobbedienza ci eravamo allontanati» (Regola, prologo).

São Marcos Ji Tianxiang: Um santo pouco conhecido, viciado em ópio, mas que nunca perdeu a fé

 


Todos nós somos atormentados por vícios e defeitos dos quais, por alguma razão, parece nunca conseguirmos libertar-nos. Por causa desses pecados, continuamente magoamo-nos – e pior ainda, magoamos os nossos entes queridos, os nossos amigos, os nossos cônjuges e os nossos filhos. Muitos de nós católicos, por causa deles, voltamos repetidamente ao confessionário, frustrados por continuarmos confessando os mesmos pecados de sempre.

Isso não quer dizer que não saibamos, no fundo do coração, que essas afeições são erradas. No entanto, às vezes algo em nós não quer assumir o compromisso de mudar. E assim rezamos como o jovem Santo Agostinho: “Deus, dai-me continência e castidade, mas não agora!”

Mas esta não é a única razão para o nosso fracasso em mudar. De facto, às vezes não é por causa de qualquer apego ou falta de vontade consciente, mas apenas pela experiência incapacitante da nossa própria incapacidade. Sem a graça de Deus, somos espiritualmente coxos, e esse facto faz-se sentir dolorosamente nos nossos repetidos fracassos, que continuam a infligir dor aos nossos entes queridos e a nós mesmos. Infinitamente frustrados pelos nossos próprios fracassos, rezamos uma oração ligeiramente diferente daquela que Santo Agostinho rezou quando era jovem. Confrontados com a nossa incapacidade, aproximamo-nos do Senhor quando estamos perto do ponto de total desânimo e rezamos: “Ó Senhor, faça-me santo AGORA!”

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Podemos inspirar-nos para esta oração num santo muito menos conhecido: o mártir chinês São Marcos Ji Tianxiang, um cristão devoto e médico do final do século XIX. O que diferencia Ji de muitos outros santos é que ele morreu atolado num vício do qual nunca conseguiu libertar-se: o vício paralisante do ópio. Depois de contrair uma dolorosa doença estomacal, automedicou-se com a droga viciante e viu-se irreparavelmente dependente dela pelo resto da vida.

Enquanto os avanços na medicina moderna permitem-nos ver o vício como uma doença a ser curada ou controlada, Ji e os seus entes queridos certamente experimentaram a sua dependência como uma falha moral também.

A devoção de Ji à fé católica nunca diminuiu, apesar do seu vício ao ópio. Ele voltava fiel e frequentemente ao confessionário, trazendo o seu pecado diante de Nosso Senhor e pedia-Lhe perdão. No entanto, seu vício também nunca o deixou. Não importa quantas vezes ele se confessou, e não importa quantas vezes ele pronunciou a sua resolução de mudar de vida. Ele continuava a cair sempre no vício. Aqueles ao seu redor, incluindo a sua família, seus amigos e até mesmo o padre a quem ele confessava regularmente os seus pecados, suspeitavam que ele tinha abandonado todo o desejo de viver uma vida verdadeiramente cristã, virtuosa. De fato, o confessor chegou até a proibi-lo de receber os sacramentos até que se tivesse libertado do vício. Essa situação continuou por 30 anos – e ainda assim, em todo esse tempo, Ji permaneceu comprometido com a sua fé e com a Igreja. Ele nunca abandonou a sua esperança na graça de Deus.

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Santo Agostinho ensinou que o desejo de rezar sempre é equivalente a orar sempre de fato. Obviamente, sendo criaturas temporais, não podemos rezar literalmente com as nossas palavras a cada momento do dia. Devemos dormir, comer, caminhar, trabalhar, ocupar-nos de inúmeras atividades que acarretam interações sociais, etc. Os homens não são de facto tão proficientes em realizar multitarefas, então a injunção de São Paulo para se rezar sempre parece impraticável. No entanto, a solução simples de Agostinho para esse problema é a de afirmar que o desejo em si conta. Desenvolver uma vida de oração saudável e holística é, portanto, uma questão de cultivar esse desejo e manter a chama sempre viva.

Da mesma forma, a santidade é, em última análise, uma questão de ter um desejo sincero por Deus. O desejo sincero de ser santo é em si um sinal de que Deus já plantou as sementes da santidade no coração da pessoa. Por causa disso, o pecador que tem este desejo pode estar confiante na graça salvadora de Deus.

Isso não quer dizer, obviamente, que ele pode ser presunçoso e tomar a graça divina como certa e continuar a pecar sem qualquer resolução real para mudar de vida. Esta é a atitude que caracterizou a oração defeituosa do jovem Agostinho: “Faça-me santo, mas não agora”. É a disposição de quem diz a si mesmo: “Está tudo bem, continua a pecar. Ainda não é preciso mudar de vida!”.

No entanto, se a pessoa está consciente de que precisa de mudar de vida já, confia na graça de Deus e alimenta um desejo sincero dentro de si mesmo de ser santo, a oração “torna-me santo agora” não significa presunção, mas manifestação da virtude teologal da esperança e, portanto, contém as próprias sementes da santidade. O pecador que reza assim, sinceramente, pode assegurar-se de que “está tudo bem” – não que esteja tudo bem, por ele ser imperfeito e continuar pecando, mas porque é imperfeito e precisa mudar. Pois ele é amado por Deus e, desde que responda a esse amor com sinceridade de coração, pode ter a certeza de que Deus o mudará - embora o tempo de Deus, não seja o mesmo dele.

E foi o que aconteceu com São Marcos Ji Tianxiang, celebrado pela Igreja no dia 7 de julho.

Em 1900, surgiu na China a violenta Rebelião dos Boxers, que pretendia expulsar pela força todos os estrangeiros e colonialistas da China. Inevitavelmente, a presença do cristianismo ali passou a ser percebida pelos rebeldes como herança do colonialismo ocidental, e assim a rebelião também levou muitos cristãos ao martírio. Milhares foram massacrados, Ji e sua família entre eles. Ainda viciado em ópio, Ji mostrou uma coragem maravilhosa diante dos seus carrascos e implorou para ser morto por último para poder ficar com cada um dos membros da sua família, confortando-os enquanto eram decapitados um a um. Finalmente, ele também foi decapitado, enquanto entoava confiantemente a Ladainha à Santíssima Virgem.

A história de São Marcos Ji Tianxiang faz um contraste interessante com a de Santo Agostinho, que viveu na lama do vício durante a sua juventude – enquanto fazia a oração insincera da presunção – mas acabou sendo salvo desses vícios pela intervenção milagrosa de Deus. Ji, pelo contrário, nunca se libertou dos seus vícios, mas manteve fielmente uma sincera devoção, do fundo do coração, até ao momento do seu heroico martírio. Ji foi salvo dos seus vícios apenas no momento da sua morte - confirmando que o tempo de Deus, não era o seu e que a sua esperança não era vã.

Jonathan Culbreath 06 de julho de 2022, traduzido do inglês da revista “America”, com pequenas adaptações.