Sant’Anselmo
nacque nel 1033 (o all’inizio del 1034) ad Aosta, primogenito di una famiglia
nobile. Il padre era uomo rude, dedito ai piaceri della vita e dissipatore dei
suoi beni; la madre, invece, era donna di elevati costumi e di profonda
religiosità (cfr Eadmero, Vita s. Anselmi, PL 159, col 49). Fu lei a prendersi
cura della prima formazione umana e religiosa del figlio, che affidò, poi, ai
Benedettini di un priorato di Aosta. Anselmo, che da bambino – come narra il
suo biografo - immaginava l’abitazione del buon Dio tra le alte e innevate
vette delle Alpi, sognò una notte di essere invitato in questa reggia splendida
da Dio stesso, che si intrattenne a lungo ed affabilmente con lui e alla fine
gli offrì da mangiare “un pane candidissimo” (ibid., col 51). Questo sogno gli
lasciò la convinzione di essere chiamato a compiere un’alta missione. All’età
di quindici anni, chiese di essere ammesso nell’Ordine benedettino, ma il padre
si oppose con tutta la sua autorità e non cedette neppure quando il figlio
gravemente malato, sentendosi vicino alla morte, implorò l'abito religioso come
supremo conforto. Dopo la guarigione e la scomparsa prematura della madre,
Anselmo attraversò un periodo di dissipazione morale: trascurò gli studi e,
sopraffatto dalle passioni terrene, diventò sordo al richiamo di Dio. Se ne
andò da casa e cominciò a girare per la Francia in cerca di nuove esperienze.
Dopo tre anni, giunto in Normandia, si recò nell’Abbazia benedettina di Bec,
attirato dalla fama di Lanfranco da Pavia, priore del monastero. Fu per lui un
incontro provvidenziale e decisivo per il resto della sua vita. Sotto la guida
di Lanfranco, Anselmo riprese infatti con vigore gli studi e, in breve tempo,
diventò non solo l’allievo prediletto, ma anche il confidente del maestro. La
sua vocazione monastica si riaccese e, dopo attenta valutazione, all’età di 27
anni, entrò nell’Ordine monastico e venne ordinato sacerdote. L’ascesi e lo
studio gli aprirono nuovi orizzonti, facendogli ritrovare, in grado ben più
alto, quella familiarità con Dio che aveva avuto da bambino.
Quando, nel 1063,
Lanfranco diventò abate di Caen, Anselmo, dopo appena tre anni di vita
monastica, fu nominato priore del monastero di Bec e maestro della scuola
claustrale, rivelando doti di raffinato educatore. Non amava i metodi
autoritari; paragonava i giovani a piccole piante che si sviluppano meglio se
non sono chiuse in serra e concedeva loro una “sana” libertà. Era molto
esigente con se stesso e con gli altri nell’osservanza monastica, ma anziché
imporre la disciplina si impegnava a farla seguire con la persuasione. Alla
morte dell’abate Erluino, fondatore dell’abbazia di Bec, Anselmo venne eletto
unanimemente a succedergli: era il febbraio 1079. Intanto numerosi monaci erano
stati chiamati a Canterbury per portare ai fratelli d’oltre Manica il
rinnovamento in atto nel Continente. La loro opera fu ben accetta, al punto che
Lanfranco da Pavia, abate di Caen, divenne il nuovo Arcivescovo di Canterbury e
chiese ad Anselmo di trascorrere un certo tempo con lui per istruire i monaci e
aiutarlo nella difficile situazione in cui si trovava la sua comunità
ecclesiale dopo l’invasione dei Normanni. La permanenza di Anselmo si rivelò
molto fruttuosa; egli guadagnò simpatia e stima, tanto che, alla morte di
Lanfranco, fu scelto a succedergli nella sede arcivescovile di Canterbury.
Ricevette la solenne consacrazione episcopale nel dicembre del 1093.
Anselmo si
impegnò immediatamente in un’energica lotta per la libertà della Chiesa,
sostenendo con coraggio l’indipendenza del potere spirituale da quello
temporale. Difese la Chiesa dalle indebite ingerenze delle autorità politiche,
soprattutto dei re Guglielmo il Rosso ed Enrico I, trovando incoraggiamento e
appoggio nel Romano Pontefice, al quale Anselmo dimostrò sempre una coraggiosa
e cordiale adesione. Questa fedeltà gli costò, nel 1103, anche l’amarezza
dell’esilio dalla sua sede di Canterbury. E soltanto quando, nel 1106, il re Enrico
I rinunciò alla pretesa di conferire le investiture ecclesiastiche, come pure
alla riscossione delle tasse e alla confisca dei beni della Chiesa, Anselmo
poté far ritorno in Inghilterra, accolto festosamente dal clero e dal popolo.
Si era così felicemente conclusa la lunga lotta da lui combattuta con le armi
della perseveranza, della fierezza e della bontà. Questo santo Arcivescovo che
tanta ammirazione suscitava intorno a sé, dovunque si recasse, dedicò gli
ultimi anni della sua vita soprattutto alla formazione morale del clero e alla
ricerca intellettuale su argomenti teologici. Morì il 21 aprile 1109,
accompagnato dalle parole del Vangelo proclamato nella Santa Messa di quel
giorno: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo
per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare
e bere alla mia mensa nel mio regno…” (Lc 22,28-30). Il sogno di quel
misterioso banchetto, che da piccolo aveva avuto proprio all’inizio del suo
cammino spirituale, trovava così la sua realizzazione. Gesù, che lo aveva
invitato a sedersi alla sua mensa, accolse sant’Anselmo, alla sua morte, nel
regno eterno del Padre.
“Dio, ti prego,
voglio conoscerti, voglio amarti e poterti godere. E se in questa vita non sono
capace di ciò in misura piena, possa almeno ogni giorno progredire fino a
quando giunga alla pienezza” (Proslogion, cap.14). Questa preghiera lascia
comprendere l’anima mistica di questo grande Santo dell’epoca medievale,
fondatore della teologia scolastica, al quale la tradizione cristiana ha dato
il titolo di “Dottore Magnifico” perché coltivò un intenso desiderio di
approfondire i Misteri divini, nella piena consapevolezza, però, che il cammino
di ricerca di Dio non è mai concluso, almeno su questa terra. La chiarezza e il
rigore logico del suo pensiero hanno avuto sempre come fine di “innalzare la
mente alla contemplazione di Dio” (Ivi, Proemium). Egli afferma chiaramente che
chi intende fare teologia non può contare solo sulla sua intelligenza, ma deve
coltivare al tempo stesso una profonda esperienza di fede. L’attività del
teologo, secondo sant’Anselmo, si sviluppa così in tre stadi: la fede, dono
gratuito di Dio da accogliere con umiltà; l’esperienza, che consiste
nell’incarnare la parola di Dio nella propria esistenza quotidiana; e quindi la
vera conoscenza, che non è mai frutto di asettici ragionamenti, bensì di
un’intuizione contemplativa. Restano, in proposito, quanto mai utili anche
oggi, per una sana ricerca teologica e per chiunque voglia approfondire le
verità della fede, le sue celebri parole: “Non tento, Signore, di penetrare la
tua profondità, perché non posso neppure da lontano mettere a confronto con
essa il mio intelletto; ma desidero intendere, almeno fino ad un certo punto,
la tua verità, che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di capire per
credere, ma credo per capire” (Ivi, 1). (Benedetto XVI, Udienza, 23 settembre 2009)